Il diritto di rifiutare un trattamento sanitario per motivi religiosi.

La Corte di Cassazione si è espressa su una tematica di grande rilievo, attinente al bilanciamento tra il diritto alla autodeterminazione del paziente rispetto ai trattamenti sanitari e la libertà religiosa.

Il caso di specie riguarda un paziente che rifiutava di sottoporsi ad una emotrasfusione per motivi religiosi, pur avendo manifestato il proprio consenso per un diverso trattamento sanitario, il quale in una fase successiva avrebbe richiesto una trasfusione. Secondo gli Ermellini è necessario che sussista una dichiarazione formulata prima del trattamento medesimo, dalla quale emerga in modo inequivoco la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita. In particolare, una donna, Testimone di Geova, aveva adito l’Autorità giudiziaria competente al fine di ottenere un risarcimento del danno e la restituzione di quanto corrisposto per l’opera professionale prestata dai sanitari poiché, in occasione del parto effettuato con taglio cesareo, a seguito di un’emorragia, erano state eseguite trasfusioni di sangue, nonostante il mancato consenso manifestato dalla medesima.

All’attenzione della Corte di Cassazione è stata sottoposta la contrarietà al trattamento sanitario, posto che i giudici di merito avevano ritenuto che non vi fosse stato un espresso, inequivoco e attuale dissenso all’emotrasfusione. In particolare, si riteneva che avendo la paziente accettato l’intervento di laparotomia esplorativa, ciò implicava l’accettazione di tutte le sue fasi, ivi compresa la necessità di trasfusioni in caso di pericolo di vita. Dunque, per i giudici dei precedenti gradi di giudizio sarebbe stato irrilevante accertare l’eventuale effettivo dissenso rispetto alla trasfusione, una volta che la paziente non avesse ritenuto di rifiutare l’intervento chirurgico connesso alle trasfusioni.

La Corte di Cassazione, sul punto, precisa che: “il paziente ha sempre diritto di rifiutare le cure mediche che gli vengono somministrate, anche quando tale rifiuto possa causarne la morte; tuttavia, il dissenso alle cure mediche, per essere valido ed esonerare così il medico dal potere-dovere di intervenire, deve essere espresso, inequivoco ed attuale: non è sufficiente, dunque, una generica manifestazione di dissenso formulata “ex ante” ed in un momento in cui il paziente non era in pericolo di vita, ma è necessario che il dissenso sia manifestato ex post, ovvero dopo che il paziente sia stato pienamente informato sulla gravità della propria situazione e sui rischi derivanti dal rifiuto delle cure (Cass. 15 settembre 2008, n. 23676, relativa proprio ad un caso in cui paziente era un Testimone di Geova)”.

La vicenda esaminata risale ad un periodo antecedente alla Legge n. 219/2017 (recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”), dunque, con riferimento all’epoca dei fatti di causa, la disciplina della fattispecie resta affidata ai principi costituzionali ovvero a quello  di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario (art. 32 Cost.) ed a quello di libertà religiosa (art. 19 Cost.).

Secondo la Corte di Cassazione: “come si è visto, la ratio decidendi della decisione impugnata è nel senso che non potesse considerarsi l’esistenza di un espresso, inequivoco ed attuale dissenso all’emotrasfusione perché l’accettazione dell’intervento di laparotomia esplorativa implicava l’accettazione di tutte le sue fasi, ivi compresa la necessità della trasfusione per il caso di pericolo di vita. Tale ratio è stata impugnata denunciando che il consenso prestato all’intervento di laparotomia non comportava consenso all’emotrasfusione alla luce del diritto all’autodeterminazione della paziente e dell’incoercibilità del credo religioso della stessa. L’impugnazione è da reputare fondata sulla base dell’evidenziata regola di giudizio in quanto la Testimone di Geova, sotto la copertura del complesso di principi costituzionali evidenziati, ha il diritto di rifiutare l’emotrasfusione anche con dichiarazione formulata prima del trattamento sanitario. L’accettazione dell’intervento di laparotomia esplorativa non ha implicato l’accettazione anche dell’emotrasfusione. La dichiarazione anticipata di dissenso all’emotrasfusione, che possa essere richiesta da un’eventuale emorragia causata dal trattamento sanitario, non può dunque essere neutralizzata dal consenso prestato a quest’ultimo. Restano naturalmente, per il dissenso espresso prima del trattamento sanitario, le condizioni fissate da Cass. n. 23676 del 2008, e cioè un’articolata, puntuale, espressa ed attuale dichiarazione dalla quale inequivocabilmente emerga la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita”.

Per quanto riguarda la posizione dei medici, la Suprema Corte ha affermato, facendo riferimento alla disciplina normativa della L. 22 dicembre 2017, n. 219, che: “la posizione del medico non è esente da garanzie in circostanze come quella del caso di specie. Prevede l’art. 1, comma 6 citata legge, non solo che il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale, ma anche che il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali. Prestare il consenso ad un intervento chirurgico, al quale è consustanziale il rischio emorragico, con l’inequivoca manifestazione di dissenso all’esecuzione di trasfusione di sangue ove il detto rischio si avveri, significa esigere dal medico un trattamento sanitario contrario, oltre che alle buone pratiche clinico-assistenziali, anche alla deontologia professionale. A fronte di tale determinazione del paziente il medico non ha obblighi professionali”.

Corte di Cassazione, sezione civile III, sentenza n. 29469 del 23 dicembre 2020.

2021-01-13T12:48:18+01:00 13 Gennaio 2021|